La Grande Abbuffata: verso nuovi orizzonti del reale (2024)

La Grande Abbuffata: verso nuovi orizzonti del reale (1)
Quando ne parlai io, nel lontano 2016,
una traduzione in italiano di questo libro
ancora non esisteva (dannazione!)

Quando e come, ci stavamo chiedendo la volta scorsa, una necessità biologica è entrata a far parte diquell’eterogeneo agglomerato chiamato cultura? Va innanzitutto rilevato che per gli antichi cucinare era ben più che adempiere a un compito necessario anutrire il proprio corpo, ma era un vero e proprio atto religioso: gli antropologi sono in gran parteconcordi che in molti gruppi sociali fosse previsto un sacrificio cruento agli dèi (chiamato ”olocausto”) acui seguiva un banchetto durante il quale l’animale vittima del sacrificio veniva consumato dai fedeli; è ilcaso dei riti misterici, come quelli eleusini, la religione dionisiaca o i baccanali, le feste dedicate a Bacco. In qualche momento della storiaumana vi furono perfino pasti cannibalici, poiché a essere ucciso era un essere umano. E vi fu perfino chiipotizzò che la figura di Cristo, il dio sacrificato per eccellenza, sia stato creato per sublimare (e occultare)una o più piante sacre che in tempi remoti erano state venerate come divinità, perché aprivano l’uomo allaconoscenza soprasensibile (Allegro docet).

Si tratta dispeculazioni oziose, naturalmente; nulla che possa essere provato. È però oltremodo curioso (sebbene ifunghi ad esempio non si coltivino, ma casomai si colgono) che la parola latina colere significhi siacoltivare che onorare, venerare, a testimonianza del fatto che nell’area mediterranea l’agricoltura avesseun posto preminente tra le attività umane anche perché consentiva all’uomo di elevarsi sopra lacondizione animale, piegando la natura ai suoi bisogni e garantendosi di non dover soffrire mai più lafame; in termini economici, aveva permesso di passare da un’economia di sussistenza a un’economiafondata sul processo produttivo.

L’atto stesso di cuocere il cibo, vegetale o animale che sia, affrancal’uomo dalla natura; ma anche se la cottura potrebbe aver marcato il passaggio da una società naturale auna regolata da convenzioni sociali (non dimentichiamo ad esempio che gli antichi greci consideravano "barbaro" chi consumava il cibo crudo), come era convinzione dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss (*), il cibo a volte viene consumato crudo, oppure preparato senza cuocerlo, essicato, affumicato,fermentato, e non è possibile delineare una corrispondenza precisa tra queste pratiche e l’evoluzionesociale dei gruppi umani di riferimento (**) (piuttosto, è interessante rilevare che ancora oggi la cucina sia ilcentro della casa in tutte le culture del mondo, e certamente in quella italiana).

Per farlo può essere piùdeterminante esaminare la ritualità del consumo dei pasti, il modo in cui oltre all’abbondanza del cibo(una ricca mensa era ovviamente indice di uno status sociale elevato) divenne prominente anche la suapresentazione, talora davvero stravagante e a effetto, e la cura legata all’apparecchiare la tavola, scegliereil posto dei commensali, eccetera.

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Un tempo condividere il desco era sinonimo di convivialità e occasionedi conversazione, nonché un modo per rafforzare legami e stringere alleanze, nel caso di persone abbientiche volessero sopravvivere e prosperare nell’instabilità sociale e politica, o semplicemente condividere leproprie miserie, nel caso dei poveri; ed è ancora così.

Né si può dire che di per sé cucinare fosse solol’atto meccanico di mescolare ingredienti a caso in base al sapore, perché si trattava al contrario di unavera e propria forma di farmacologia, tanto che i pasti e le preparazioni farmaceutiche utilizzavano glistessi ingredienti (motivo per cui la parola ricetta designa sia la preparazione farmaceutica che quellagastronomica). La cucina popolare si fondava sulla credenza in una sinonimia tra alimentazione emedicina e promulgava la qualità del cibo come elemento chiave della salute (***).

La medicina greca comincia a interessarsi al cibo più o meno nello stesso periodo di quella cinese. Il filosofo cineseZou Yan (305-240 a.C.) nel III secolosviluppa la teoria dei 5 elementi (metallo, legno, acqua, fuoco, terra), che più tardi verrà approfondita dal medicoZhang Zhongjing (150-219 d.C.)in un trattatoche evidenzia il legame tra cibo e salute.In Occidente, sulla scia della “teoriaumorale” di Ippocrate(460–377 a.C. circa),ripresa da Galeno(129–201 d.C. circa),si era affermata una medicina astrologica per la quale non soloil cibo salutare era quello che meglio aiutava a preservare l’equilibrio di ognuno (cioè il bilanciamento deiquattro elementi acqua, aria, terra e fuoco), ma la costituzione fisica di ciascun individuo era determinatadal suo tema natale (abbiamo già osservato nel corso di Orizzonti del Reale che anticamente il medico eraanche un astrologo e spesso un negromante).

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Ciò che a noi può sembrare una deviazione dal pensieroordinario si spiega col fatto che processi come la fermentazione e la lievitazione apparivano abbastanzamisteriosi da fa pensare che fossero opera di folletti o spiriti del sottosuolo, che potevano infuriarsi einfluenzarne il decorso (facendo marcire i cibi, inacidire il vino e così via); una forma di pensiero che puòaver dato forma anche alle creature del folclore protagoniste di numerose leggende agresti o montane (peresempio l'Uomo Selvatico, che insegnò all’uomo come fare il formaggio o i segreti dell’apicoltura, o leAnguane, anch’esse esperte nella caseificazione e in grado di favorire i pescatori).

Religiosità, magia,cosmogonia si intrecciavano in uno sfondo estatico (pensiamo alle trance associate allo sciamanismo)agevolato da fenomeni di intossicazione volontaria (dati dall’ingestione di uva, latte o cereali fermentati) einvolontaria (per esempio tramite il consumo di pane fatto con la segale cornuta, che tra le altre cosecontiene l'acido lisergico, la base dell’LSD, di cui abbiamo anche già parlato qui sul blog). L’uso di questicibi intossicanti, vere e proprie droghe, diventava anche, per le classi meno abbienti, una maniera disopportare una fame atavica che per loro costituiva la normalità, e alimentava un immaginario collettivodi mostri ed esseri soprannaturali le cui gesta sono narrate in fiabe, leggende popolari, poemi e canzoni, inuna spirale senza soluzione di continuità la cui manifestazione più compiuta sono i riti del Carnevale (equi si dovrebbe aprire un capitolo a parte legato alle maschere del Carnevale, ma questo speciale non offrené il tempo né lo spazio per farlo).

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Ciò che rimane oggi di questa ritualità è fondamentalmente il consumotradizionale di determinati cibi durante la celebrazione di feste religiose. Ancora oggi c’è una strettacorrelazione tra il cibo e i riti e le varie religioni, basti pensare ai precetti ḥalāl dei musulmani, alla cucina kosher degli ebrei o alle tradizioni (se non proprio precetti) dei cattolici osservanti riguardo l’agnellopasquale o il non mangiare carne nei "giorni di magro", cioè il venerdì e gli altri giorni proibiti. E questosolo per citare le tre grandi religioni monoteistiche, essendomi oggettivamente impossibile (quand’anchene fossi in grado) entrare nel merito di tutte le tradizioni legate alle varie religioni del mondo.

Se oggi il cibo è parte integrante della cultura, tuttavia, non è solo perché i pasti devono essere preparati inmodo rispettoso della religione, anzi oserei dire che nelle società laiche in varie parti del mondo questoaspetto non è più così essenziale. È invece emersa nel tempo la tendenza a identificare un cibotradizionale come qualcosa di preparato utilizzando ingredienti tradizionali, provenienti dal territorio enon sostituibili, per ottenere un gusto e una consistenza specifici. Questo è stato reso possibile, con lamorte dell’Illuminismo, che definiva cultura solo le attività specificamente intellettuali, dalla nascita dellascienza antropologica, che rigettò l’idea di oggettività della cultura sostituendole quella di patrimoniointellettuale appartenete non più al singolo, ma a una collettività, sia essa un dato popolo o l’umanità intera,e in seguito quella della summa delle abitudini e delle capacità acquisite e trasmesse socialmente inqualunque tempo e luogo.

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Com’è comprensibile, finché c’era scarsità di cibo la priorità era procurarselo, efu solo con la diffusione del benessere e dell’abbondanza delle risorse presso gran parte della popolazioneche la consistenza e il sapore del cibo, e perfino la sua storia, divennero davvero rilevanti, oltre chemateria del contendere di infinite diatribe sull’origine storica e geografica di questa o quella pietanza,dell’autenticità di questa o quella ricetta. Resta un mistero come una tale mentalità abbia potuto attecchirein Italia, un paese che non era unito da nessun punto di vista, neppure, a causa delle differenticaratteristiche geografiche, sotto il profilo gastronomico, tanto più che le regioni che furono riunite sotto labandiera nazionale erano state soggette nel corso del tempo a diverse e numerose dominazioni straniere.L’Italia, come la sua tanto magnificata cucina, è un costrutto risorgimentale, una morfologia di tradizioniculinarie diverse con in comune solo l’esser, di base, delle cucine popolari, povere (è un fatto che moltipiatti del sud somiglino più ai piatti degli altri paesi mediterranei che a quelli del nord Italia).Ciononostante, gli italiani si azzuffano ogni giorno sulle virtù della dieta mediterranea, sulla paternitàdella pizza o della carbonara o su quanto sia gourmet riscoprire i cereali antichi, anche grazie alla cassa dirisonanza dei social media. Per non parlare della contrapposizione, non solo nostrana, tra onnivori evegetariani e vegani, che meriterà una trattazione a parte.

Partirei dunque da qui, esaminando una serie di pellicole che indagano il rapporto del cibo con latradizione, tenendo sempre bene a mente che il commercio e in ultima istanza la sua degenerazione, laglobalizzazione, hanno potenzialmente livellato le abitudini delle persone a tavola (slegandol'alimentazione dal territorio, ma anche dai cicli delle stagioni, tanto che oggi è possibile reperirequalunque tipo di cibo in ogni periodo dell'anno); il che si ricollega, in primis, al legame tra il cibo el’infanzia.

* Claude Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto (Le cru et le cuit, 1966). Il saggio esamina i miti di alcune tribùsudamericane dell’area amazzonica sull’origine del fuoco, che lo fanno provenire da un animale (il giaguaro oaltro predatore, ovvero un consumatore di carne cruda), che lo cede all'uomo oppure al quale viene sottratto; inseguito, l’uomo diventa quindi "signore del fuoco". Per esempio, nella seconda parte (cap. II. Sinfonia breve, pag.191) l’Autore scrive: "Abbiamo così la conferma che i miti gé sull'origine del fuoco, come i miti tupi-guaraní sullostesso tema, operano per mezzo di una doppia opposizione: fra crudo e cotto da una parte, fra fresco e corrottodall'altra. L'asse che unisce il crudo e il cotto è caratteristico della cultura, quello che unisce il crudo e il putrido lo èdella natura, giacché la cottura compie la trasformazione culturale del crudo, come la putrefazione ne è latrasformazione naturale.” E prosegue: “Nell'insieme globale così ricostruito, i miti tupi-guaraní testimonianomaggior radicalità rispetto ai miti gé: per il pensiero tupi-guaraní l'opposizione pertinente è fra la cottura (di cui gliavvoltoi possedevano il segreto) e la putrefazione (che oggi definisce il loro regime alimentare); mentre per i Gél'opposizione pertinente è fra la cottura degli alimenti e il loro consumo allo stato crudo, come fa ormai il giaguaro.Il mito bororo potrebbe allora tradurre un rifiuto, o una incapacità, di scegliere fra le due formule, rifiuto di cui sidovrà cercare la ragione. Il tema della putrefazione è qui maggiormente evidenziato rispetto ai Gé, quello delcarnivoro predatore è invece quasi completamente assente. D'altra parte, il mito bororo adotta il punto di vistadell'uomo conquistatore, ossia della cultura (l'eroe di M1 inventa da sé l'arco e le frecce, come la scimmia di M65 -contropartita naturale dell'uomo - inventa il fuoco che il giaguaro ignora). I miti gé e tupi-guaraní (che sotto questoprofilo sono più vicini) si situano piuttosto nella prospettiva degli animali depredati, che è quella della natura. Ma ilconfine fra natura e cultura si trova comunque spostato, a seconda che consideriamo i Gé o i Tupi. Per i primi essopassa tra il crudo e il cotto; per i secondi fra il crudo e il putrido. I Gé fanno quindi dell'insieme (crudo + putrido)una categoria naturale ; i Tupi fanno dell'insieme (crudo + cotto) una categoria culturale.

**Ciò che probabilmente avvenne dopo la scoperta del fuoco è che l’uomo cominciò a ritualizzare il suo rapporto con il cibo e con la morte, rendendo di fatto i due concetti inscindibili, ovvero da un lato pregava gli dèi per ottenere del cibo e dall’altra chiedeva perdono per l'uccisione delle prede.

*** Questo approccio al cibo non è variato molto col tempo, in effetti. Mia mamma, per esempio, ha glorificato pertutta la vita le virtù ricostituenti e guaritrici del brodo di pollo e del bollito, che a casa mia si chiamava lesso.

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